Lotta alla camorra e per gli ideali. Una vita sul fronte. Lorenzo Diana oggi è un uomo segnato dal calvario che sta affrontando. L’ex parlamentare è una persona che sta affrontando la sua odissea giudiziaria silenziosamente. Da giovane ha scelto da che parte stare, nonostante sia nato in un territorio che registrava e registra la più alta densità criminale in Europa. Cresciuto in una famiglia di coltivatori diretti di San Cipriano d’Aversa, Lorenzo Diana fin da ragazzo ha abbracciato le idee e le aspirazioni di una sinistra, quella comunista, che nel territorio di Albanova (San Cipriano d’Aversa, Casal di Principe e Casapesenna – nda) aveva una delle sue roccaforti in Terra di Lavoro. Idee di libertà che Diana non ha per nulla abbandonato. È stato veramente un piacere incontrarlo nel salotto di casa sua. Quattro ore trascorse tra racconti, storie ed avventure di un mondo, forse ideale, che oggi non c’è più. “Per me combattere le mafie è stata una scelta. Da giovani impattammo a fare i conti con l’emergere di una camorra nuova, di cui non si aveva ancora percezione”. È netto Diana, fin da subito fa nomi e cognomi dei criminali capi storici di quello che poi è diventato il famigerato clan dei casalesi: “prima eravamo di fronte alle storiche bande di delinquenti, Bardellino Antonio era noto come ladro di tir e truffatore, lui e Mario Iovine faranno il grande salto verso la camorra organizzata grazie ai contatti con la mafia siciliana”.
Che ha significato per un giovane impegnato in politica affrontare e combattere il fenomeno mafioso nella nostra terra negli anni ‘70 e ‘80?
“La camorra, da bande di rapinatori e estorsori, è diventata mafia onnivora che cercava di impossessarsi di tutti gli affari del territorio, degli appalti pubblici per esempio. Questo nuovo fenomeno non veniva percepito dalla cittadinanza. C’era un ritardo dello Stato che se ne accorgerà molto, molto tempo dopo. Noi giovani, all’epoca, dovemmo fare i conti prima degli altri, con questo problema emergente. Dovemmo imparare prima di tutti percepirlo e riconoscerlo. Questa fu una grande intuizione. Tutto ciò creò delle rotture sociali, culturali e politiche, anche con la Chiesa cattolica che all’epoca consentiva a questi camorristi di gestire i comitati di festeggiamenti religiosi, di far circolare i delinquenti, emergenti boss, come raccoglitori di elargizioni durante le processioni e per feste religiose. Ogni volta c’era una polemica con noi, accusati di vedere il male ovunque, e questo capitava spesso anche nei partiti politici”.
Il partito comunista è stato sempre il tuo riferimento.
“A San Cipriano noi comunisti eravamo in alleanza storica con i socialisti, e nel PSI c’era il padre dei Bardellino, modesto e umile lavoratore. Quando noi cominciammo a guardare con preoccupazione il fenomeno criminale, ci scontrammo dentro la stessa sinistra. Ci fu una grande frattura all’interno dello stesso gruppo comunista a tal punto da rompere l’alleanza, storica, con i socialisti”.
Per un periodo hai fatto l’assessore a San Cipriano con Ernesto Bardellino, fratello del capoclan Antonio.
“Noi comunisti cominciammo ad avvertire che qualcosa non andava. Quando i socialisti designarono assessore Ernesto Bardellino, faceva il muratore. Dopo appena quattro mesi rompemmo l’alleanza storica con i socialisti, partito molto forte nella zona, espressione di riscatto popolare. La rottura portò con sè molte critiche ed incomprensioni da parte dei cittadini che volevano giudicare Bardellino per il suo operato politico e non per la sua vita privata in rapporti stretti con il fratello Antonio. Questa scelta non fu condivisa nemmeno da una parte dei comunisti. Fui costretto, da segretario e capogruppo del PCI, ad espellere dal partito due iscritti. Il PCI, dichiaratamente schierato sul fronte delle libertà e della giustizia, aveva una contraddizione interna”.
I camorristi venivano visti come sirene?
“Certo, la contraddizione era in seno al popolo: all’interno del PCI c’erano familiari di persone legate alla camorra, qualcuno aveva già cominciato ad aderire al messaggio accattivante dei delinquenti camorristi. In modo molto giacobino, nei primi anni ‘80 in consiglio cacciai questi consiglieri comunali e ruppi l’alleanza con i socialisti, che, nel frattempo, stavano subendo una mutazione sotto l’egida di Bardellino che voleva candidarsi alle politiche. Feci arrivare, tramite Luciano Violante, un messaggio chiaro e netto al presidente Sandro Pertini che riuscì a bloccare la candidatura al Parlamento di Bardellino. Pensavamo forse di stare in un pezzo del Sud senza questo fenomeno nascente, poi man mano capimmo che non ci sarebbe stata nessuna possibilità di riscatto e di libertà, di sviluppo del territorio se non avessimo abbattuto il mostro crescente della camorra”.
Quanto è stato difficile cercare di abbattere il mostro camorra?
“Facemmo cose molto coraggiose, quasi al limite della follia. Con Renato Natale scoprimmo di essere stati bersaglio di minacce della camorra senza la minima percezione. Più collaboratori di giustizia hanno rivelato che già negli anni ‘80 mi volevano gambizzare per l’opposizione alla criminalità. Carmine Schiavone in un verbale afferma testualmente: Diana parlava in modo chiaro che la camorra stava dominando i comuni e gli appalti. Che i boss Peppinotto e Rafilotto (due camorristi di San Cipriano oggi al 41bis – nda) mi volevano a tutti i costi gambizzare e uccidere ma decisero di non farlo per evitare l’onta mediatica negativa contro la camorra”.
Si era in pochi e male organizzati a combattere il male.
“Continuammo in sostanza la battaglia io e Renato Natale con altri amici di Aversa, il gruppo girava intorno alla testata “Lo Spettro”, a qualche piccolo gruppo della Chiesa cattolica e anche in modo timido la parrocchia di Don Peppe Diana che arrivò molto più in ritardo a questa percezione negativa della camorra. Fummo gli apripista di una nuova consapevolezza sociale critica, dando vita ad un percorso di lunga durata. Fu come attraversare un tunnel, senza mai vedere la luce. Fu un decennio lunghissimo. Gli anni ‘82 e ‘83, come rivelano i collaboratori di giustizia, furono gli anni dell’occupazione dei comuni sistematica da parte della camorra. Denunciavamo anzitempo il rischio della crescita del fenomeno nella zona. Fino alla legge sullo scioglimento dei comuni infiltrati, nel 1991, restammo quasi inascoltati, non ci fu alcun vero intervento dello Stato, tranne qualche sporadico arresto di qualche camorrista scarcerato di lì a poco. C’era il metodo Carnevale che negava l’esistenza della mafia”.
Lo Stato assente e infiltrazioni della malavita anche nelle forze di polizia…
“Da membro della Commissione Antimafia potei appurare che erano stati individuati più di cento infiltrati nei corpi di polizia. Questo dava l’idea della capacità di infiltrazione della camorra che si scontrava con l’incapacità di uno Stato che non sapeva difendersi. La stessa Magistratura aveva un dichiarato ritardo di percezione, abbiamo dovuto aspettare le dichiarazioni del primo collaboratore di giustizia Carmine Schiavone nel 1993 per avere la prima grande operazione di polizia con l’inchiesta sfociata nel processo Spartacus nel dicembre del 1995. Fino ad allora mai un vero intervento forte dello Stato sul nostro territorio”.
Cosa accade poi dopo quasi 15 anni di occupazione militare-mafiosa delle Istituzioni?
“Dopo aver attraversato il deserto per un lunghissimo periodo, arriva la stagione dei sindaci. Costruimmo, poco alla volta, una maggiore consapevolezza nel mondo politico-sociale e anche religioso. Un’alleanza tra la sinistra e pezzi importanti di società civile e cattolici, portammo 7 parlamentari su 10 dalla Provincia di Caserta a Roma. Fu una costruzione lenta e paziente. In quella fase non c’era un riflettore acceso sull’Agro aversano. Eravamo molto isolati. Avevamo calato le mani nel fango di una società che tardava a percepire il pericolo camorra e non voleva fare i conti con un Moloch che metteva paura. Da opposizione diventammo forza di governo locale. Quello fu uno dei capolavori sociali e politici che rimarrà nella storia di Terra di Lavoro”.
Ricordi di gioventù e di passione politica che Diana porta con sè con orgoglio. Non rimpiange nulla di tutto quello che ha fatto. È fa bene. È per alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Iovine, suo concittadino sanciprianese, che Diana oggi risulta ancora formalmente indagato per associazione esterna alla mafia casalese. Quanto di vero c’è nelle dichiarazioni di Iovine lo stabilirà la Giustizia. Lorenzo Diana difenderà la sua posizione, il suo operato e la sua famiglia, nelle sedi opportune: una cosa è certa, ha profondo rispetto delle Istituzioni, quelle giudiziarie soprattutto. È questo dimostra la lealtà di un uomo che ha fatto della lotta alle mafie l’unico scopo del suo impegno sociale e politico.