Con la sentenza di primo grado e le maxicondanne dei presunti responsabili nel “processo Resit”, sembrava ormai una verità “accertata” quella dello scempio e disastro ambientale provocato dalla camorra casalese, in completa sinergia con imprenditori collusi e funzionari pubblici corrotti, nei comuni di Giugliano in Campania e Parete mediante lo smaltimento incontrollato e illegale in grosse discariche come la Resit di rifiuti urbani e tossici, spesso provenienti da tutta Italia, soprattutto dal centro-nord. Il presidente della quarta sezione della Corte d’Assise Appello Domenico Zeuli, su sollecitazione dei difensori degli imputati, aveva disposto nel novembre scorso una nuova perizia per schiarire le idee se siano effettivamente inquinati i suoli sottostanti alla maxi-discarica ubicata a cavallo tra le province di Caserta e Napoli, nel cuore della Terra dei Fuochi. In primo grado la Corte d’Assise non aveva mai disposto una propria perizia, affidandosi invece alla numerose consulenze di parte depositate dal pm Alessandro Milita (oggi Procuratore Aggiunto a Santa Maria Capua Vetere – nda) e dalla difesa degli imputati: le prime attestavano la contaminazione di suoli e delle falde acquifere mettendola in relazione con la mancanza di coibentazione delle pareti della discarica, cosa che negli anni avrebbe provocato l’infiltrazione nel terreno di percolato tossico prodotto dai rifiuti. Le consulenze difensive raggiungevano chiaramente risultati opposti, e tutte affermavano che non c’erano elementi certi per provare l’inquinamento dei terreni. In primo grado il tribunale partenopeo accolse, con una sentenza senza precedenti, l’ipotesi accusatoria, condannando il principale protagonista dello scempio, l’avvocato Cipriano Chianese, ritenuto l’inventore delle ecomafie per conto del clan dei casalesi, a venti anni di reclusione per disastro ambientale e traffico illecito di rifiuti senza però l’aggravante mafiosa. Con Chianese fu condannato a 5 anni e sei mesi di carcere anche l’ex sub-commissario per l’emergenza rifiuti Giulio Facchi, stretto collaboratore di Bassolino, per il quale il pm aveva chiesto 30 anni di carcere. Furono condannati in Assise anche gli imprenditori del clan attivi nel settore dei rifiuti, il massone parente di Cicciotto Bidognetti, Gaetano Cerci (16 anni) e i fratelli monnezzari Elio, Generoso e Raffaele Roma. La discarica Resit di Giugliano in Campania, oltre ad essere usata dalla camorra e da imprenditori (gli Iossa di Marigliano e i fratelli Bruscino di Brusciano – nda) contigui ad essa per i propri traffici di rifiuti tossici dal centro-nord al Sud, fu utilizzata anche dal Commissariato per l’emergenza in occasione di uno dei periodi più acuti della crisi rifiuti in Campania, a metà degli anni 2000. Con la nuova perizia depositata agli atti nei giorni scorsi dai tre periti torinesi nominati a novembre, si legge chiaramente che non vi è alcun dubbio sull’inquinamento dei suoli e sull’avvelenamento delle acque sottostanti la Resit, “la madre di tutte le discariche”: “la contaminazione trovata ai bordi e sotto gli invasi denota verosimilmente che i presidi, anche qualora ci fossero, sono risultati inefficaci e quindi non realizzati a regola d’arte” e continuando – “alla luce di tutto quanto emerso, si ritiene che l’attività di ricezione e smaltimento dei rifiuti ivi sversati nel corso degli anni, verificata anche la natura pericolosa – tossico e/o nociva – di alcuni di essi, abbia effettivamente prodotto un danno all’ambiente”. L’“avvelenamento” delle acque che non si è fermato, anzi, scrivono i tre consulenti, “risulta accertato che la contaminazione è in atto ed è aumenta progressivamente nel tempo”. Sempre a proposito dell’acqua di falda i consulenti ammettono che “che la concentrazione di alcuni analiti ha raggiunto una “soglia di efficacia” tale da poter considerare queste sostanze tali da potenzialmente porre in pericolo concreto, la salute degli assuntori”. Disastro ambientale pienamente riscontrato con il conseguente avvelenamento delle acque ancora in atto, con un grave rischio per la popolazione che abita nei dintorni dell’area Vasta di Giugliano. Falda acquifera contaminata con “fluoruri, cloroformio, tetracloroetilene, tricloroetilene, 1,2-dicloropropano, 1,2,3-tricloropropano, cloruro di vinile, 1,2-dicloroetano, dicloroetilene; tricloroetano e benzene”. Lo studio dei tre periti piemontesi non ha fatto altro che confermare i risultati tecnici riportati nella sentenza di primo grado. I cittadini devono solo aspettare. Giustizia sarà fatta!