Cento milioni di euro, il tesoretto dei Casalesi è finito sotto sequestro grazie a un’operazione della direzione investigativa antimafia di Napoli che ha messo i sigilli alle aziende riconducibili all’imprenditore 67enne Alfonso Letizia, operante nel settore del calcestruzzo. Secondo gli investigatori l’imprensitore è da ritenersi un vero e proprio affiliato al clan, fazione Bidognetti – Iovine: in cambio di una posizione dominante sul mercato aveva messo a disposizione della “famiglia” le sue aziende e strutture. Il provvedimento di sequestro è stato emesso dal presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Corinna Forte, su richiesta del direttore della Dia Arturo De Felice. I beni sono riconducibili ad Alfonso Letizia , 67enne originario di Casal di Principe, imprenditore mondragonese attivo nel settore della produzione e della vendita del calcestruzzo. Un’indagine del 2011 aveva già svelato gli intrecci illeciti del ceto politico di Casal di Principe con l’ala militare e imprenditoriale dal clan dei casalesi, fazione Schiavone e Bidognetti, fino al condizionamento del voto a favore di candidati indicati dall’organizzazione ed evidenziato enormi interessi economici nell’aggiudicazione di appalti, assunzioni di personale compiacente, apertura di centri commerciali, e attività edilizie con forniture di calcestruzzo.
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Ditte contigue ai “casalesi” nell’affare della ricostruzione post sisma de L’Aquila
Nella zona del casertano c’è la migliore manodopera in campo edilizio. Questa è una cosa notoria ed accertata. Manodopera che dall’Agro Aversano veniva regolarmente assunta da ditte aquilane o campane per lavorare in cantieri di ricostruzione privata post-sisma attraverso l’intermediazione di altri costruttori campani incensurati ma contigui al clan dei “Casalesi”, i Di Tella. Lo stipendio veniva pagato con buste paga regolari, ma la metà rientrava in contanti a costituire un tesoretto di fondi neri per il gruppo campano. Questo, secondo quanto emerso in conferenza stampa, il “sistema” portato alla luce dall’inchiesta “Dirty job” della Procura distrettuale antimafia abruzzese, che attraverso le indagini della Guardia di finanza ha portato a 7 arresti di imprenditori, aquilani, che hanno fatto affari con la camorra, anche se indirettamente. “Acquisivano quante piu’ commesse possibili a prescindere della loro capacita’ tecniche e di organico – ha spiegato il sostituto procuratore David Mancini – Si affidavano alle imprese dei Di Tella che reperivano manodopera solo a Casapesenna e Casal di Principe”. I Di Tella “portavano e alloggiavano all’Aquila quei lavoratori, li facevano assumere dagli imprenditori aquilani, che alla fine emettevano una busta paga con importi corretti, ma poi la offrivano ai Di Tella che gestivano una contabilita’ separata e occulta”. Infatti, ha aggiunto Mancini, “dopo aver percepito l’importo il lavoratore restituiva la meta’ dello stipendio con prelievi bancomat. Non avveniva attraverso la violenza – ha chiarito – ma con intimidazione ambientale diffusa, in qualche caso con alzata di toni a ricordare anche gli obblighi condivisi dalla provenienza geografica”. Il bottino tornava ai Di Tella, ma il giochetto “consentiva comunque di garantirsi un 30% agli aquilani, anche se poi in quei cantieri non ci mettevano le mani”, ha sottolineato ancora Mancini. Di norma gli operai venivano assunti dai Di Tella, a volte anche dagli arrestati ai domiciliari Elio Gizzi, Marino Serpetti e Michele Bianchini. Continua la lettura di Ditte contigue ai “casalesi” nell’affare della ricostruzione post sisma de L’Aquila
Affari made in Gomorra: “dal caffè e macchinette videopoker i soldi per quelli al 41 bis”
Anche i soldi del cosiddetto clan degli “scissionisti”, attivo nell’area nord di Napoli, finivano nella societa’ Caffe’ del Sud (poi trasformatasi in Nuova Caffe’ del Sud, ndr), che distribuisce il caffe’ in Campania e, di fatto, era gestita dalla famiglia di Puorto di Casal di Principe per conto della fazione Schiavone del clan dei casalesi. La circostanza emerge dall’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Napoli Claudia Picciotti ed eseguita stamattina dal Gico della Guardia di Finanza di Firenze e dalla Squadra Mobile della Questura di Caserta che questa mattina hanno arrestato, tra gli altri, i fratelli Antonio e Salvatore Di Puorto con la moglie di quest’ultimo, il padre Ugo, i nipoti, e sequestrato di beni per circa 10 milioni di euro, tra cui beni immobili in provincia di Modena (Emilia Romagna). A raccontare la circostanza che conferma la capacita’ dei Casalesi di ripulire il danaro anche di altre organizzazioni e’ il collaboratore di giustizia Salvatore Venosa. “So che il Caffe’ del Sud veniva da un deposito di Mondragone. Ricordo che ebbi un assegno bancario della Deutsche Bank pari a 6 mila euro da uno scissionista; lo consegnai a Salvatore Di Puorto che lo inserì nella contabilità Caffe’ del Sud. Ai clan di Mondragone veniva versata, in cambio della disponibilità ad accettare nel territorio la distribuzione del CAFFÈ DEL SUD un contributo economico”. Sempre Venosa racconta che dai soldi guadagnati con la vendita del caffe’ e con l’installazione delle slot machine, “business diffusi sul litorale pontino sino a Roma”, venivano pagati i capi del clan. “Era lui – riferisce Venosa citando Benedetto Ricciardi, nipote dei fratelli Di Puorto, arrestato stamani – che consegnava la somma di diciassettemila e 500 euro mensili a Carmine Schiavone che doveva portarli al padre ‘Sandokan’ e la somma di 3500 euro per Nicola Schiavone a titolo di stipendio”. Non avevano confini gli affari della famiglia: “…i soldi che i Di Puorto investivano al nord ed anche in Toscana derivavano dall’attività di video poker e dalla distribuzione del caffè denominata Caffè del Sud, traffici di autovetture, fatturazione falsa, non escluse le estorsioni praticate nei confronti di imprenditori edili in Toscana…” – continua il pentito Venosa. L’odore del caffè prodotto a Gomorra doveva avere un’unica firma, quella degli Schiavone: Continua la lettura di Affari made in Gomorra: “dal caffè e macchinette videopoker i soldi per quelli al 41 bis”
A Casapesenna la politica asservita allo strapotere di Michele Zagaria
L’ex sindaco di Casapesenna Fortunato Zagaria era espressione del gruppo capeggiato dal boss omonimo Michele Zagaria. Lo rivela l’ex capo-clan da poco pentito Antonio Iovine, o’ ninno, in alcuni interrogatori i cui verbali sono stati depositati questa mattina al Tribunale di Napoli dal pm della DDA Catello Maresca. Il deposito e’ stato effettuato nel corso dell’udienza preliminare del processo (gup Alessandra Ferrigno) che vede imputati l’ex primula rossa e l’ex sindaco di Casapesenna per il reato di tentata violenza privata aggravata dal metodo mafioso commessa nei confronti di Giovanni Zara (difeso dall’avvocato Domenico Cesaro), ex primo cittadino del paese del Casertano. I fatti risalgono al 2008 quando Zara era stato da poco eletto sindaco e Zagaria era il suo vice: quest’ultimo, secondo l’accusa, avrebbe piu’ volte minacciato Zara affinche’ questi non parlasse in occasioni pubbliche del boss allora latitante. Pochi mesi dopo Zara fu sfiduciato dalla sua stessa maggioranza e costretto a lasciare l’incarico, alle successive elezioni Zagaria divenne sindaco. Per questi fatti Zagaria fu anche arrestato nel febbraio 2012 mentre era sindaco di Casapesenna e scarcerato dopo pochi giorni. Il pm Maresca in aula ha depositato anche i verbali contenenti dichiarazioni dell’altro neo-pentito Attilio Pellegrino, ex luogotenente di Zagaria e un dvd con le immagini di un convegno tenutosi alla Camera dei Deputati in cui Zara parlo’ di legalita’ scagliandosi contro il boss allora latitante. Iovine racconta delle minacce realizzate tra il 2001 e il 2005 da Luigi Guida detto o’drink, allora capo della fazione Bidognetti del clan, nei confronti di tre sindaci del Casertano. Continua la lettura di A Casapesenna la politica asservita allo strapotere di Michele Zagaria
Il padrino Antonio Iovine vuota il sacco e in Terra di Gomorra sono in molti a tremare
Aveva solo vent’anni, ed il battesimo del fuoco arrivò in un afoso giorno d’inizio estate del 1984. Scontro tra bande avverse, la Nuova Famiglia contro i seguaci del Professore di Vesuviano, l’assassinio di Ciro Nuvoletta avviò la guerra nella Campania post terremoto. Lo scontro sanguinario non aveva età, davanti ai due capi, Antonio Bardellino e Vincenzo De Falco, il Ninno, come lo avevano soprannominato ad Antonio Iovine, si avviava alla carriera di boss. Subito dopo l’agguato si svolse il rito di affiliazione: il dito ”pugnuto”, il santino macchiato di sangue che si incendiava tra le mani, il giuramento che sarebbe venuto meno come quella figurina se avesse tradito. Antonio Iovine, boss pentito del clan dei Casalesi, al patto di sangue è venuto meno: “ho iniziato la collaborazione per avere un futuro migliore, per dare una svolta alla mia vita”, ha esordito così ‘o ninno, nell’aula ex 30 della Corte d’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in un afoso sabato di giugno, lo stesso mese del suo battesimo di fuoco. Regolamenti di conti, lotte intestine, appalti pilotati, funzionari e amministratori comprati o collusi, buste gialle, fogli bianchi, milioni e milioni di euro, soldi pubblici finiti nelle casse di imprenditori che sceglievano i loro riferimenti criminali. “Fui affiliato al clan dei casalesi con la pungitura nel 1985, lo stesso giorno dell’omicidio Di Nuvoletta, ad affiliarmi – ha detto gesticolando con la mano destra ‘o ninno, l’eterno bambino – furono Antonio Bardellino e Vincenzo De Falco. Mi punsero un dito e fecero cadere alcune gocce di sangue su un santino. Pronunciai un giuramento le cui parole esatte non ricordo, ma nel quale mi impegnavo a non tradire il clan”. Continua la lettura di Il padrino Antonio Iovine vuota il sacco e in Terra di Gomorra sono in molti a tremare